Le confessioni, libro terzo, quarto...

Publié le par Jean-Christophe.PACCHIANA

Libro terzo

STUDENTE A CARTAGINE

 

 

Svaghi studenteschi
Desiderio e godimento d'amore

1. 1. Giunsi a Cartagine, e dovunque intorno a me rombava la voragine degli amori peccaminosi. Non amavo ancora, ma amavo di amare e con più profonda miseria mi odiavo perché non ero abbastanza misero. Amoroso d'amore, cercavo un oggetto da amare e odiavo la sicurezza, la strada esente da tranelli 1. Avevo dentro di me un appetito insensibile al cibo interiore, a te stesso, Dio mio, e quell'appetito non mi affamava, bensì ero senza desiderio di cibi incorruttibili, né già per esserne pieno; anzi, quanto più ne ero digiuno, tanto più ne ero nauseato. Malattia della mia anima: coperta di piaghe, si gettava all'esterno con la bramosia di sfregarsi miserabilmente a contatto delle cose sensibili, che pure nessuno amerebbe, se non avessero un'anima. Amare ed essere amato mi riusciva più dolce se anche del corpo della persona amata potevo godere. Così inquinavo la polla dell'amicizia con le immondizie della concupiscenza, ne offuscavo il chiarore con il Tartaro della libidine. Sgraziato, volgare, smaniavo tuttavia, nella mia straripante vanità, di essere elegante e raffinato. Quindi mi gettai nelle reti dell'amore, bramoso di esservi preso. Dio mio, misericordia mia 2, nella tua infinita bontà di quanto fiele non ne aspergesti la dolcezza! Fui amato, raggiunsi di soppiatto il nodo del piacere e mi avvinsi giocondamente con i suoi dolorosi legami, ma per subire i colpi dei flagelli arroventati 3 della gelosia, dei sospetti, dei timori, dei furori, dei litigi 4.


L'insana passione del teatro

2. 2. Mi attiravano gli spettacoli teatrali, colmi di raffigurazioni delle mie miserie e di esche del mio fuoco. Come avviene che a teatro l'uomo cerca la sofferenza contemplando vicende luttuose e tragiche? e che, se pure non vorrebbe per conto suo patirle, quale spettatore cerca di patirne tutto il dolore, e proprio il dolore costituisce il suo piacere? Strana follia, non altro, è questa. A quei casi si commuove infatti di più chi è meno immune dalle passioni che agitano; eppure, mentre di solito si definisce miseria la propria sofferenza, le sofferenze per gli altri si definiscono misericordia. Ma infine, dov'è la misericordia nella finzione delle scene? Là non si è sollecitati a soccorrere, ma soltanto eccitati a soffrire, e si apprezza tanto più l'attore di quelle figurazioni, quanto più si soffre, e se la rappresentazione di sventure remote nel tempo oppure immaginarie non lo fa soffrire, lo spettatore si allontana disgustato e imprecando; se invece soffre, rimane attento e godendo piange.


La compassione

2. 3. Dunque amiamo anche la sofferenza. Indubbiamente qualsiasi uomo vuole godere, e misero non piace esserlo a nessuno, però ci piace di essere pietosi: forse perché, non essendovi misericordia senza sofferenza, per ciò solo amiamo di soffrire? Anche questo è un rivo che sgorga dall'amicizia, ma dove diretto? dove corre? perché sfocia in un fiume di pece bollente 5, in gorghi immani di oscuri piaceri, ove si muta e trasforma per proprio impeto, deviando e decadendo dalla sua limpidezza celeste? Bisogna dunque ripudiare la misericordia? Niente affatto. Amiamo talvolta la sofferenza, ma, anima mia, guàrdati dall'impurità tenendoti sotto la protezione del Dio mio, il Dio dei padri nostri, degno di lode ed esaltato per tutti i secoli 6. Guardati dall'impurità. Ancora oggi infatti provo misericordia; ma allora, nei teatri, partecipavo alla gioia degli amanti allorché si godevano l'un l'altro immondamente, anche se ciò avveniva soltanto nell'illusione del gioco scenico, e viceversa, quasi misericordioso, mi contristavo allorché si lasciavano, in entrambi i casi provando diletto tuttavia. Oggi invece provo maggior compassione di chi gode nell'immondezza, che non di chi si crede sventurato per la privazione di un piacere dannoso o la perdita di una triste felicità. Qui si ha certamente una misericordia più vera; ma la sua sofferenza non produce diletto. Se si loda chi soffre della miseria altrui perché compie un dovere di carità, tuttavia una misericordia genuina preferirebbe che mancassero i motivi di sofferenza. Soltanto se esistesse una bontà maligna, che non può esistere, potrebbe anche, chi prova una misericordia vera e sincera, desiderare l'esistenza dei miseri per provarne misericordia. Si può dunque approvare il dolore in alcune circostanze, mai amarlo. Tu, Signore Dio, che ami le anime, ne provi una misericordia infinitamente più pura e incorruttibile della nostra, perché nessun dolore ti ferisce. Ma chi è capace di tanto? 7.


Ricerca di sensazioni

2. 4. Io allora, misero, amavo soffrire e cercavo occasioni di sofferenza. Nelle afflizioni altrui, e sia pure le afflizioni fittizie di un mimo, il gesto del commediante mi piaceva e attraeva tanto più violentemente, quante più lacrime mi strappava. E che c'è di strano, se, pecora infelice, errabonda lontano dal tuo gregge e insofferente della tua sorveglianza 8, un'orrenda scabbia mi deturpava 9? Di qui il mio amore per il dolore, non già tale da incidere troppo profondamente nel mio animo, perché non amavo patire le pene che amavo contemplare; ma da graffiarmi, per così dire, la pelle in superficie all'ascolto e alla vista di una finzione. Senonché, come avviene al grattare delle unghie, ne seguivano gonfiori brucianti, e infezioni e un orrendo marciume. Ma quella vita era vita, Dio mio?


Misericordia di Dio

3. 5. Pure, la tua misericordia mi aleggiava intorno fedele, di lontano. In quante iniquità non mi sono corrotto fino alla putredine! Ti lasciai per seguire una curiosità sacrilega, che doveva precipitarmi nell'abisso infido e nel culto ingannevole dei demòni, cui immolavo in sacrificio i miei misfatti 10. E tu frattanto non cessavi di flagellarmi 11. Non osai persino, nelle affollate cerimonie delle tue festività, fra le pareti della tua chiesa concepire voglie impure e brigare per cogliere frutti mortali 12? Perciò mi hai fustigato duramente. Ma i tuoi castighi erano nulla rispetto alla mia colpa, o sconfinata misericordia mia, Dio mio, rifugio mio 13 dai terribili pericoli fra cui vagai presuntuoso, a testa alta, staccandomi sempre più da te, invaghito delle mie, non delle tue strade, invaghito della mia libertà di evaso.


Intemperanze dei compagni di scuola

3. 6. Anche gli studi nobili, com'erano chiamati, avevano il loro sbocco nel foro litigioso, cioè miravano a rendermi eccellente ove tanto più si è lodati, quanto più si è frodatori. La cecità degli uomini è così grande, che persino della propria cecità si gloriano. Ormai ero il primo alla scuola di retorica e ne provavo una gioia altera, mi gonfiavo di vento, sebbene fossi molto più quieto, Signore, tu lo sai 14, e rimanessi affatto estraneo ai disordini provocati dai "perturbatori dell'ordine", epiteto sinistro e diabolico che pure equivale a un'insegna di buona educazione, fra i quali vivevo. Nella mia impudenza serbavo dunque un certo pudore, se non ero come loro. Mi trovavo con loro, mi piaceva talvolta la loro compagnia, ma le loro imprese mi ripugnavano sempre, i disordini in cui perseguitavano spavaldamente la timidezza dei novellini e li atterrivano con le loro burle non ad altro intese, che a pascere la loro maligna festevolezza. Nessun'altra è più somigliante alla condotta dei demòni, perciò non potevano ricevere appellativo più giustificato che quello di perturbatori dell'ordine, perturbati com'erano essi per primi e disturbati da spiriti beffardi, che occultamente li deridevano e seducevano proprio nell'atto di godere delle derisioni e delle beffe altrui.

Prime impressioni di studio
La lettura dell'Ortensio di Cicerone

4. 7. Fu in tale compagnia che trascorsi quell'età ancora malferma, studiando i testi di eloquenza. Qui bramavo distinguermi, per uno scopo deplorevole e frivolo quale quello di soddisfare la vanità umana; e fu appunto il corso normale degli studi che mi condusse al libro di un tal Cicerone, ammirato dai più per la lingua, non altrettanto per il cuore. Quel suo libro contiene un incitamento alla filosofia e s'intitola Ortensio. Quel libro, devo ammetterlo, mutò il mio modo di sentire, mutò le preghiere stesse che rivolgevo a te, Signore, suscitò in me nuove aspirazioni e nuovi desideri, svilì d'un tratto ai miei occhi ogni vana speranza e mi fece bramare la sapienza immortale con incredibile ardore di cuore. Così cominciavo ad alzarmi per tornare a te 15. Non usavo più per affilarmi la lingua, per il frutto cioè che apparentemente ottenevo con il denaro di mia madre: avevo allora diciotto anni e mio padre era morto da due; non per affilarmi la lingua dunque usavo quel libro, che mi aveva del resto conquistato non per il modo di esporre, ma per ciò che esponeva.

4. 8. Come ardevo, Dio mio, come ardevo di rivolare dalle cose terrene a te, pur ignorando cosa tu volessi fare di me. La sapienza sta presso di te 16, ma amore di sapienza ha un nome greco, filosofia. Del suo fuoco mi accendevo in quella lettura. Taluno seduce il prossimo mediante la filosofia, colorando e truccando con quel nome grande, fascinoso e onesto i propri errori. Ebbene, quasi tutti coloro che sia al suo tempo, sia prima agirono in tal modo, vengono bollati e denunciati in quel libro. Così vi è illustrato l'ammonimento salutare che ci diede il tuo spirito per bocca del tuo servitore buono e pio: Attenti che nessuno v'inganni mediante la filosofia e la vana seduzione propria della tradizione umana, propria dei princìpi di questo mondo, ma non propria di Cristo, perché in Cristo sussiste tutta la pienezza della divinità corporeamente 17. A quel tempo, lo sai tu 18, lume della mia mente, io ignoravo ancora queste parole dell'Apostolo; pure, una cosa sola bastava a incantarmi in quell'incitamento alla filosofia: le sue parole mi stimolavano, mi accendevano, m'infiammavano ad amare, a cercare, a seguire, a raggiungere, ad abbracciare vigorosamente non già l'una o l'altra setta filosofica, ma la sapienza in sé e per sé là dov'era. Così una sola circostanza mi mortificava, entro un incendio tanto grande: l'assenza fra quelle pagine del nome di Cristo. Quel nome per tua misericordia, Signore 19, quel nome del salvatore mio, del Figlio tuo, nel latte stesso della madre, tenero ancora il mio cuore aveva devotamente succhiato e conservava nel suo profondo. Così qualsiasi opera ne mancasse, fosse pure dotta e forbita e veritiera, non poteva conquistarmi totalmente.


Incontro deludente con le Sacre Scritture

5. 9. Perciò mi proposi di rivolgere la mia attenzione alle Sacre Scritture, per vedere come fossero. Ed ecco cosa vedo: un oggetto oscuro ai superbi e non meno velato ai fanciulli 20, un ingresso basso, poi un andito sublime e avvolto di misteri. Io non ero capace di superare l'ingresso o piegare il collo ai suoi passi. Infatti i miei sentimenti, allorché le affrontai, non furono quali ora che parlo. Ebbi piuttosto l'impressione di un'opera indegna del paragone con la maestà tulliana. Il mio gonfio orgoglio aborriva la sua modestia, la mia vista non penetrava i suoi recessi 21. Quell'opera è fatta per crescere con i piccoli; ma io disdegnavo di farmi piccolo 22 e per essere gonfio di boria mi credevo grande.

Adesione al manicheismo
Verità e menzogna

6. 10. Così finii tra uomini orgogliosi e farneticanti, carnali e ciarlieri all'eccesso. Nella loro bocca si celavano i lacciuoli del diavolo 23 e un vischio confezionato mescolando le sillabe del tuo nome con quelle del Signore Gesù Cristo e del Paracleto, lo Spirito Santo nostro consolatore 24. Questi nomi erano sempre sulle loro labbra 25, ma soltanto come suoni e strepito della lingua; per il resto il loro cuore era vuoto di verità. Ripetevano: verità, verità, e ne facevano un gran parlare con me, eppure mai la possedevano, e dicevano il falso non su te soltanto, che sei davvero la verità, ma altresì su questi princìpi di questo mondo 26, che da te sono creati, un argomento su cui avrei dovuto superare i filosofi anche quando dicevano il vero, in nome del tuo amore, Padre mio sommamente buono, bellezza di ogni bellezza. O Verità, Verità, come già allora e dalle intime fibre del mio cuore sospiravo verso di te, mentre quella gente mi stordiva spesso e in vario modo con il solo suono del tuo nome e la moltitudine dei suoi pesanti volumi. Nei vassoi che si offriva alla mia fame di te, invece di te si presentavano il sole e la luna, creature tue, e belle, ma pur sempre creature tue, non te stessa, anzi neppure le tue prime creature, poiché le precedono le creature spirituali, essendo queste corporee, sebbene luminose e celesti. Ma io neppure delle tue prime creature, bensì di te sola, di te, Verità non soggetta a trasformazione né ad ombra di mutamento 27, avevo fame e sete 28. Invece mi si ammannivano ancora su quei vassoi delle ombre baluginanti. Non sarebbe stato meglio rivolgere senz'altro il mio amore al vero sole, vero almeno per questi occhi, anziché a quelle menzogne, che attraverso gli occhi ingannavano lo spirito? Eppure io le ingoiavo, perché le credevo te, ma senza avidità, perché nella mia bocca non avevi il tuo reale sapore, non essendo davvero tu quelle insulse finzioni, e senza trarne un nutrimento, anzi un esaurimento sempre maggiore. Così il cibo dei sogni è in tutto simile a quello della veglia, eppure i dormienti non si nutrono, perché dormono. Ma i cibi che allora mi somministravano non erano nemmeno simili in nulla a te, quale ti conosco ora che mi hai parlato. Erano fantasmi corporei, corpi falsi. Sono più reali questi corpi veri, che vediamo con gli occhi della carne in cielo e in terra, che vediamo come le bestie e gli uccelli li vedono, eppure più reali di quanto li immaginiamo; ed anche immaginandoli li vediamo in modo più reale di quando muovendo da essi ne supponiamo altri maggiori e infiniti del tutto inesistenti, come le vanità di cui allora mi pascevo senza pascermi. Ma tu, Amore mio, su cui mi piego per essere forte 29, non sei né i corpi che vediamo, sia pure, in cielo, né quelli che non vi vediamo, essendo un frutto della tua creazione, e neppure tra i sommi nel tuo ordinamento. Quanto sei dunque lontano dalle mie fantasie di allora, fantasie di corpi sprovvisti di ogni realtà! Più reali di esse sono le rappresentazioni dei corpi esistenti, e più reali di queste i corpi medesimi, che pure tu non sei. Ma tu non sei neppure l'anima, che è la vita dei corpi, e la vita dei corpi è indubbiamente più alta e reale dei corpi. Tu sei la vita delle anime, la vita delle vite, vivente per tua sola virtù senza mai mutare 30, vita dell'anima mia 31.

6. 11. Dov'eri dunque allora, e quanto lontano da me? Io lontano da te vagavo escluso persino dalle ghiande dei porci che di ghiande pascevo 32. Quanto sono preferibili le favolette dei maestri di scuola e dei poeti, che quelle trappole! I versi, la poesia, Medea che vola, sono certo più utili dei cinque elementi variamente trasformati per le cinque caverne delle tenebre, mere invenzioni, che però uccidono chi vi crede. Dai versi, dalla poesia, posso anche trarre reale alimento. Se allora declamavo la storia di Medea che vola, non la davo per vera, come non vi credevo io stesso sentendola declamare. Invece alle altre ho creduto, per mia sventura; lungo quei gradini fui tratto sino agli abissi infernali 33, febbricitante, tormentato dall'arsura della verità, mentre, Dio mio, lo riconosco davanti a te, che avesti misericordia di me quando ancora non ti riconoscevo, mentre cercavo te non già con la facoltà conoscitiva della mente, per la quale volesti distinguermi dalle belve, ma col senso della carne. E tu eri più dentro in me della mia parte più interna e più alto della mia parte più alta. M'imbattei in quella donna avventata e sprovvista di saggez-za, che nell'indovinello di Salomone sta sulla porta, seduta sopra una seggiola, e dice: "Assaporate i pani riposti e gustate l'acqua rubata, così dolce" 34. Costei mi sedusse poiché mi trovò fuori, insediato nell'occhio della mia carne e intento a ruminare fra me le cose che per quella via avevo ingerito.


La polemica manichea

7. 12. Ignaro infatti dell'altra realtà, la vera, ero indotto ad approvare quelle che sembravano acute obiezioni dei miei stolti seduttori, quando mi chiedevano quale fosse l'origine del male, se Dio fosse circoscritto da una forma corporea e avesse capelli e unghie, se si dovesse stimare giusto chi teneva contemporaneamente più mogli, uccideva uomini e sacrificava animali. Io, ignorante in materia, ne rimanevo scosso. Mentre mi allontanavo dalla verità, credevo di camminare verso di lei, senza sapere che il male non è se non privazione del bene fino al nulla assoluto. Dove, per altro, avrei potuto vedere la verità, se i miei occhi non vedevano oltre i corpi, l'intelletto oltre i fantasmi? E non sapevo che Dio è spirito 35, non un essere dotato di membra estese in lunghezza e larghezza, e di massa: perché le parti di una massa sono ciascuna minore dell'insieme, e se pure la massa sia infinita, è minore nelle parti definite entro un certo spazio che nell'insieme infinito, né una massa è tutta intiera dovunque, come lo spirito, come Dio. Cosa poi vi sia in noi che ci fa essere e ci fa dire giustamente nella Scrittura fatti a immagine di Dio 36, lo ignoravo totalmente.


Sviluppo della moralità

7. 13. Non conoscevo nemmeno la giustizia vera, interiore, che non giudica in base alle usanze, ma in base alla legge rettissima di Dio onnipotente; cui si devono informare i costumi dei paesi e dei tempi, paese per paese, tempo per tempo, mentre essa non muta in ogni paese e in ogni tempo, non è diversa in luoghi diversi, né diversamente stabilita in circostanze diverse; secondo la quale furono giusti Abramo e Isacco e Giacobbe e Mosè e Davide e tutti gli altri uomini lodati dalla bocca di Dio, mentre sono giudicati disonesti dagli ignoranti, che giudicano secondo la giornata umana 37 e misurano i costumi del genere umano lungo tutta la sua storia sulla base dei propri costumi parziali e particolari. Così farebbe un tale, che, inesperto di armature, non conoscendo le membra per cui ogni pezzo fu predisposto, volesse coprire con un gambale la testa e calzare ai piedi l'elmo, brontolando perché non si accomodano; oppure che, in un giorno dichiarato festivo al pomeriggio, si adirasse perché non gli concedono di esporre in vendita qualche merce, mentre era concesso al mattino; oppure, vedendo che nella stessa casa un servo maneggia un oggetto che al coppiere non si permette di toccare, o dietro la stalla si compiono certe faccende, che davanti alla mensa sono vietate, s'indignasse perché, unica essendo l'abitazione e unico il servizio, non dappertutto e non tutti hanno le medesime attribuzioni. Non diversi sono costoro, che s'indignano all'udire come in quell'antica età erano lecite ai giusti certe azioni, che in questa non sono lecite ai giusti; e come Dio desse precetti diversi a quegli uomini e a questi per motivi contingenti, mentre sia gli uni che gli altri ubbidiscono alla medesima giustizia. Non vedono dunque come nella stessa persona nella stessa giornata nello stesso edificio ad ognuna delle membra conviene una certa cosa, alle altre un'altra; e come una cosa lecita da gran tempo non lo è più dopo un'ora, un atto permesso o comandato in quel certo angolo, in quest'altro pur così vicino è vietato o punito? Diremo che la giustizia è varia e mutevole 38? No, ma è il tempo da essa regolato che non procede sempre col medesimo passo: non per nulla è il tempo. Ora, gli uomini, la cui vita è breve sulla terra 39, incapaci di rapportare col discernimento i motivi validi nei secoli precedenti e fra gli altri popoli di cui non hanno esperienza, a quelli di cui hanno esperienza; capaci invece di vedere prontamente in un corpo o una giornata o una casa ciò che conviene a un certo membro, a un certo momento, a un certo luogo o persona, nel primo caso si disgustano, nel secondo subiscono.

7. 14. Io stesso ignoravo allora queste verità e non le percepivo. Esse dardeggiavano da ogni lato i miei occhi e non le vedevo. Nel declamare una poesia non mi era lecito collocare un piede qualsiasi in un punto qualsiasi, bensì dovevo usare diversi piedi secondo i diversi metri, ed anche nel medesimo verso non sempre il medesimo piede; ciò nonostante l'arte stessa che regolava la mia declamazione non seguiva princìpi diversi nei diversi punti, ma costituiva un sistema unitario. Non scorgevo però che la giustizia, cui ubbidivano uomini dabbene e santi, costituiva essa pure un sistema unitario di precetti in una sfera ben più eccellente e sublime; che, immutabile in ogni sua parte, non li assegna né impone tutti simultaneamente a tempi diversi, ma quelli soltanto che sono appropriati a ciascuno; e nella mia cecità rimproveravo ai pii patriarchi non soltanto di aver agito secondo i comandi e le ispirazioni di Dio nel presente, ma di avere anche preannunziato il futuro, secondo le rivelazioni avute da lui.

Stabilità della legge di natura e varietà delle convenienze

8. 15. C'è forse un tempo o un luogo in cui sia ingiusto amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente, e amare il prossimo come te stesso 40? Dunque si devono detestare e punire dappertutto e sempre i vizi contrari alla natura, per esempio i vizi dei sodomiti, che se pure tutti i popoli della terra li praticassero, la legge divina li coinvolgerebbe in una medesima condanna per il loro misfatto, poiché non ha creato gli uomini per un tale uso di se stessi. È infatti una violazione del vincolo che deve sussistere tra noi e Dio la contaminazione della natura medesima, di cui egli è l'autore, per una passione perversa. Quanto alle azioni che sono viziose perché contravvengono alle usanze umane, si devono evitare, uniformandosi alla diversità delle usanze stesse, per non violare con la brama capricciosa del singolo, cittadino o straniero, il patto stabilito dalla consuetudine o dalla legge fra gli abitanti di una medesima città o nazione: la discordanza infatti di qualsiasi parte col tutto è una deformità. Ma quando è Dio stesso a dare un ordine contrario a un'usanza o a un patto qualsiasi, bisogna metterlo in pratica, anche se in quel luogo non fu mai praticato; e se fu trascurato, bisogna restaurarlo, se non fu stabilito, bisogna stabilirlo. A un re è lecito impartire nella città di cui ha il regno un ordine mai impartito da nessuno prima di lui né da lui stesso prima di allora. L'ubbidirvi, poi, non è un atto contrario alla convenzione su cui si regge la città; sarebbe anzi contrario alla convenzione il non ubbidirvi, dal momento che la convenzione su cui si regge ogni umana società è l'ubbidienza al proprio re. Quanto più dunque si dovrà servire senza esitazione Dio, re di tutto il creato, in ciò che comanda! Come fra i poteri della società umana il maggiore precede il minore quanto all'ubbidienza dovuta, così Dio precede tutti.

8. 16. Le stesse considerazioni valgono per le offese al prossimo, ove opera la brama di nuocere con ingiuria o con danno, e in entrambi i casi o per vendicarsi, come avviene tra nemici; o per ottenere un bene altrui, come avviene al ladrone che assale un viandante; o per evitare un danno, come avviene per l'uomo che è temuto; oppure per invidia, come avviene al più povero verso chi è più fortunato, o a chi ebbe successo in qualcosa e teme o geme di avere un uguale; oppure per il semplice gusto del male altrui, come avviene agli spettatori degli incontri gladiatori o a chi deride e si beffa del prossimo. Queste le tre fonti dell'ingiustizia. Esse rampollano dalla libidine del potere, della curiosità e del senso 41, ora da una sola, ora da due, ora da tutte tre insieme. Allora si vive male, contro i primi tre e gli altri sette comandamenti, lo strumento a dieci corde 42, il tuo decalogo, Dio altissimo 43 e dolcissimo. Quali vizi possono toccare te, invece, che non sei soggetto a corruzione, quali delitti offendere te, cui nessuno può nuocere? Tu punisci le colpe che gli uomini commettono a proprio danno. Essi anche quando peccano contro di te agiscono spietatamente contro la propria anima, e la loro iniquità s'inganna 44, guastando e pervertendo la propria natura creata e ordinata da te; facendo un uso smoderato del lecito, oppure bramando ardentemente l'illecito per farne un uso contrario alla natura 45. Sono anche rei in cuor loro quanti imprecano contro di te e scalciano al tuo pungolo 46, oppure godono di aver infranto audacemente le barriere della società umana con private consorterie e rapine secondo i propri gusti e le proprie avversioni. Ciò avviene quando ti si abbandona, fonte della vita 47, unico vero creatore e regolatore dell'universo, amandone per orgoglio individuale una parziale falsa unità. E così si ritorna in te con la pietà umile, e tu ci purifichi dalla cattiva abitudine, indulgente verso i peccati 48 che si confessano, incline ad ascoltare i gemiti di chi è inceppato ai piedi 49, ci sciogli dai lacci che ci siamo da noi stessi applicati, affinché non leviamo più contro di te le corna 50 di una falsa libertà per ingordigia di possedere dell'altro e col pericolo di perdere tutto per colpa di un amore più grande verso il nostro bene particolare che verso te, bene universale.


Complessità degli atti umani

9. 17. Ma accanto ai vizi personali, ai misfatti e alle molte offese recate al prossimo, esistono i peccati di chi procede sulla retta via, biasimati dai buoni giudici secondo la legge della perfezione, ma pure apprezzati per la speranza del frutto futuro, come è apprezzata l'erba per il grano. Esistono poi certe azioni che assomigliano a vizi o a misfatti e tuttavia non sono peccati, poiché non offendono né te, Signore Dio nostro, né il consorzio umano. È il caso di chi si procura qualche bene per usarne nella vita a tempo opportuno, ma forse agisce per il gusto di possedere; o di chi, avendone legittimamente la potestà, punisce un reo per correggerlo, ma forse agisce per il gusto di nuocere. Esistono dunque molte azioni che sembrano riprovevoli agli uomini, mentre le approva la tua testimonianza, e molte che gli uomini lodano, e tu con la tua testimonianza condanni. Spesso sono diversi l'aspetto di un'azione e le intenzioni di chi agisce, come pure il groviglio delle circostanze, a noi ignote. Ma se tu imponi all'improvviso un'azione inusitata e imprevista, addirittura vietata da te stesso in precedenza, chi dubiterà dell'obbligo di compierla, anche se non riveli al momento la causa della tua imposizione e se contrasta col patto sociale di un gruppo di uomini? Unica giusta società umana è infatti quella che serve a te; ma beati quanti comprendono che da te viene l'ordine, perché ogni atto dei tuoi servitori o realizza quanto richiede il presente o preannunzia quale sarà il futuro.


Ridicole credenze manichee

10. 18. Ignaro di tutto ciò, io deridevo i tuoi santi servi e profeti; e cosa ottenevo con la mia derisione se non la tua derisione? Poco alla volta, ma percettibilmente, mi ero lasciato indurre a credere scempiaggini come queste: che il fico, quando viene colto, si mette a piangere lacrime di latte, e così pure sua madre la pianta; se però mangia il fico, da altri naturalmente, e non da lui, delittuosamente colto, un santone, da quel fico egli impasta nelle viscere e fra i gemiti dell'orazione erutta degli angeli, che dico, delle particelle addirittura di Dio, particelle del sommo e vero Dio, che sarebbero rimaste prigioniere nel frutto, se il dente e il ventre dell'eletto santone non le avessero liberate. Ed io, misero, ho creduto doveroso usare maggior misericordia 51 verso i frutti della terra, che verso gli uomini, a cui sono destinati. Se un affamato non manicheo avesse chiesto di che sfamarsi, un boccone a lui offerto sembrava sufficiente per essere condannati al supplizio capitale.


Un sogno di Monica

11. 19. Ma tu stendesti la tua mano dall'alto 52 e traesti la mia anima 53 da un tale abisso di tenebre, mentre per amor mio piangeva innanzi a te mia madre, tua fedele, versando più lacrime di quante ne versino mai le madri alla morte fisica dei figli. Grazie alla fede e allo spirito 54 ricevuto da te essa vedeva la mia morte; e tu l'esaudisti, Signore. L'esaudisti, non spregiasti le sue lacrime, che rigavano a fiotti la terra sotto i suoi occhi dovunque pregava. Tu l'esaudisti: perché, da chi le venne il sogno consolatore, per il quale accettò di vivere con me e avere con me in casa la medesima mensa, che da principio aveva rifiutata per avversione e disgusto del mio traviamento blasfemo? Le sembrò, dunque, di essere ritta sopra un regolo di legno, ove un giovane radioso e ilare le andava incontro sorridendole, mentre era afflitta, accasciata dall'afflizione. Il giovane le chiedeva i motivi della sua mestizia e delle lacrime che versava ogni giorno, più con l'intento di ammaestrarla, come suole accadere, che d'imparare; ed ella rispondeva di piangere sulla mia perdizione. Allora l'altro la invitava, per tranquillizzarla, e la esortava a guardarsi attorno: non vedeva 55 che là dov'era lei ero anch'io? Ella guardò e mi vide ritto al suo fianco sul medesimo regolo. Quale l'origine del sogno, se non il tuo orecchiare al suo cuore 56, o bontà onnipotente, che ti prendi cura di ciascuno di noi come se avessi solo lui da curare, e di tutti come di ciascuno?

11. 20. E quale l'origine di quest'altro fatto: che dopo avermi narrato il suo sogno, appunto, e mentre io m'ingegnavo a trarlo a questo significato: che era lei piuttosto a non dover disperare di essere un giorno come me; ebbene, subito, senza un attimo di esitazione, esclamò: "No, non mi fu detto: là dov'è lui sarai anche tu; ma: là dove sei tu sarà anche lui". Ti confesso, Signore, questo mio ricordo, in quanto mi rammento, né mai ne feci mistero, che ancor più del sogno in sé mi scosse questa tua risposta per bocca di mia madre sveglia. Essa non si smarrì di fronte a una così sottile, ma falsa interpretazione e vide così presto ciò che si doveva vedere e io certo non avevo veduto prima delle sue parole. Così proprio in quel sogno e molto tempo prima del vero fu predetto alla pia il gaudio che avrebbe provato in un futuro lontano, per consolarla dell'ansia che la struggeva al presente. Passarono in seguito nove anni, durante i quali io mi avvoltolai in quel fango d'abisso 57 e tenebre d'errore ove ad ognuno dei molti tentativi che feci per risollevarmi, più pesantemente mi abbattevo; eppure quella vedova casta, pia e sobria 58, quali tu le ami, dalla speranza, certo, resa ormai più alacre, ma al pianto e ai gemiti non meno pronta, persisteva a far lamento per me davanti a te in tutte le ore delle sue orazioni. Le sue preghiere penetravano sino al tuo sguardo 59, e nondimeno tu mi lasciavi ancora aggirare e raggirare nella caligine.


L'augurio di un vescovo

12. 21. Ricordo un secondo responso che desti nel frattempo, e tralascio molti altri episodi per la fretta di giungere a quelli che più mi urgono perché li confessi, senza dire che molti li ho dimenticati. Dunque ci fu un secondo responso, che desti per bocca di un tuo sacerdote, certo vescovo nutrito nella chiesa ed esperto nei tuoi libri. Pregato da quella donna che si degnasse di trattenersi con me per confutare i miei errori, dissuadermi dai princìpi errati e persuadermi dei giusti, come del resto era solita fare quando per caso trovava una persona adatta, si rifiutò, saggiamente invero, come più tardi capii. Le risposte infatti che ero ancora indocile perché gonfiato dal contatto recente con quella tale eresia e perché avevo già confuso molte persone impreparate mediante certe polemichette, come, aveva saputo da lei. "Ma, soggiunse, lascialo stare dov'è. Prega soltanto il Signore per lui. Scoprirà da se stesso, leggendo, dove sia il suo errore e quanto sia grande la sua empietà". Contemporaneamente le narrò come egli pure, fanciulletto, fosse stato affidato dalla madre, da loro lusingata, ai manichei e avesse non soltanto letto, ma altresì copiato via via quasi tutti i loro libri. Così aveva scoperto da solo, senza bisogno delle discussioni e delle persuasioni di nessuno, quanto si debba fuggire dalla loro setta, da cui infatti fuggì. Queste parole non bastarono ad acquietare mia madre. Essa anzi insisteva ancor più con implorazioni e lacrime copiose, perché acconsentisse a vedermi, a discutere con me; finché il vescovo, un po' stizzito e un po' annoiato, esclamò: "Vattene: possa tu vivere come non può essere che il figlio di tante lacrime perisca". Queste parole ella accolse, come ricordava poi spesso nei nostri colloqui, quasi fossero risuonate dal cielo.


http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/conf_03.htm



Libro quarto

INSEGNANTE PER NOVE ANNI A TAGASTE E CARTAGINE

 

 

Vanità di retore
Nove anni di superbia e superstizione manichea

1. 1. Trascorremmo questo periodo di nove anni, dal diciannovesimo al ventottesimo, cadendo e traendo in agguati, fra inganni subìti e attuati, in preda a diverse passioni, pubblicamente praticando l'insegnamento delle discipline cosiddette liberali, occultamente una religione spuria, superbi nel primo, superstiziosi nella seconda, in entrambi vani; attraverso il primo inseguendo una fama popolare vuota fino agli applausi teatrali, ai certami poetici, a gare per una corona di fieno, a spettacoli frivoli e passioni sregolate; attraverso la seconda cercando la purificazione da queste macchie mediante le vivande che portavamo agli eletti e ai santoni, come li chiamavano, affinché nell'officina del loro ventricolo ne fabbricassero per noi gli angeli e gli dèi nostri liberato-ri. Io seguivo queste pratiche, le compivo insieme ai miei amici, ingannandoli e ingannandomi con loro. Subirò la derisione dei presuntuosi, coloro che non hai ancora prostrati e schiacciati per il loro bene, Dio mio; ma ti confesserò ugualmente le mie infamie a tua lode 1. Permettimi, ti scongiuro, concedimi di percorrere col ricordo presente gli antichi percorsi del mio errore e di immolarti una vittima di giubilo 2. Cosa sono io per me stesso senza te, se non una guida verso il precipizio? e quando anche sto bene, cosa sono, se non uno che succhia il tuo latte 3 e si nutre di te, vivanda incorruttibile 4? e chi è l'uomo, qualsiasi uomo, come uomo? Ci deridano pure i forti e i potenti; noi, deboli e bisognosi 5, ci confesseremo a te.


Vita pubblica e privata di Agostino in quegli anni

2. 2. In quegli anni insegnavo retorica: vinto cioè dalla mia passione, vendevo chiacchiere atte a vincere cause. Tuttavia preferivo, Signore, tu sai 6, avere allievi buoni nel vero senso della parola, e a loro senza inganno insegnavo inganni utili non a perdere un innocente 7, ma a salvare talvolta un reo. E tu, Dio, di lontano vedesti vacillare sul viscidume la mia buona fede ed emettere tra denso fumo qualche sprazzo di luce 8. Io la offrivo nel mio insegnamento a persone che amavano la vanità e cercavano la menzogna 9, senza essere diverso da loro. Ancora in quegli anni tenevo con me una donna, non posseduta in nozze, come si dicono, legittime, ma scovata nel vagolare della mia passione dissennata; una sola, comunque, e a cui prestavo per di più la fedeltà di un marito. Sperimentai tuttavia di persona in questa unione l'enorme divario esistente fra l'assetto di un patto coniugale stabilito in vista della procreazione, e l'intesa di un amore libidinoso, ove pure la prole nasce, ma contro il desiderio dei genitori, sebbene imponga di amarla dopo nata.


Avversione per le pratiche degli aruspici

2. 3. Ricordo pure che, avendo voluto partecipare a un concorso di poesia teatrale, un oscuro aruspice mi fece chiedere quale ricompensa ero disposto a dargli, perché mi facesse vincere. Risposi che detestavo e aborrivo le sue luride pratiche, e neppure se la corona fosse stata d'oro indistruttibile avrei permesso che s'immolasse una mosca per la mia vittoria. Era infatti evidente che si preparava a immolare nei suoi sacrifici alcuni animali nell'intento di attrarre su di me con tali omaggi i favori dei demòni. Rifiutai dunque un simile misfatto, ma ancora una volta non in nome della tua illibatezza, Dio del mio cuore 10, perché non sapevo amarti, non sapendo pensare a uno splendore privo di corpo: e un'anima che sospira dietro a simili immaginazioni non tresca forse lontano da te 11, non poggia su falsità, non nutre i venti 12? Non volevo certamente che s'immolassero vittime per me ai demòni; io stesso però m'immolavo a loro mediante la mia superstizione: e che altro è "nutrire i venti", se non nutrire i demòni, offrire cioè ad essi col proprio errore motivi di godimento e derisione?


Ostinata devozione per l'astrologia

3. 4. Perciò quegli altri vagabondi, che chiamano matematici, non desistevo dal consultarli tranquillamente, pensando che non praticavano nessun sacrificio e non pregavano nessuno spirito per divinare il futuro. La religiosità cristiana, la vera, respinge e condanna però coerentemente ogni pratica del genere. È bene confessare te, Signore 13, e dirti: "Abbi pietà di me, sana la mia anima, perché ho peccato contro di te" 14; ed è bene non abusare della tua indulgenza per darsi licenza di peccare, ricordando le parole divine: Eccoti guarito, non peccare più, se non vuoi che ti avvenga di peggio 15. Dono di salvezza, costoro si sforzano di distruggerlo interamente dicendo: "Dal cielo ti viene la causa inevitabile del peccato" e: "È opera di Venere", oppure di Saturno, oppure di Marte. Evidentemente mirano con ciò a rendere senza colpa l'uomo, che è carne e sangue 16 e superbo marciume, e colpevole il creatore e regolatore del cielo e degli astri. Ma chi è costui, se non tu, nostro Dio, dolcezza e fonte di giustizia, che renderai a ciascuno secondo le proprie opere 17, e non sprezzi il cuore contrito e umiliato 18?


Due avversari dell'astrologia: Vindiciano e Nebridio

3. 5. Viveva in quel tempo un personaggio intelligente, versatissimo e reputatissimo in medicina, il quale da proconsole aveva posto di sua mano sul mio capo malsano la corona vinta nelle gare poetiche, ma non come medico, poiché il guaritore di quella specie di malattie sei tu, che resisti ai superbi, mentre agli umili accordi favore 19. Eppure mancasti o cessasti forse di medicare la mia anima anche per il tramite di quel vecchio? Entrato dunque in una certa dimestichezza con lui, ne ascoltavo assiduamente e attentamente i discorsi, piacevoli e austeri, poveri di vocaboli ricercati ma ricchi di pensieri vividi. Allorché da un nostro colloquio venne a conoscenza del mio interesse per i libri degli oroscopi, mi consigliò con amorevolezza paterna di buttarli e di non impiegare vanamente in futilità l'attenzione e la fatica necessaria per le cose utili. Egli stesso, mi disse, aveva studiato la materia, tanto che in gioventù avrebbe voluto farsene il proprio mestiere, di cui campare: se aveva capito Ippocrate, avrebbe ben potuto capire anche quei testi. Eppure più tardi li abbandonò per darsi alla medicina solo perché aveva scoperto la loro completa falsità e non avrebbe voluto, persona seria qual era, guadagnare il pane gabbando il prossimo. "Tu, soggiunse, possiedi un'arte che ti offre una posizione sociale solida, la retorica, e coltivi questo imbroglio per libera passione, non per necessità economiche. A maggior ragione devi fidarti di me in questa materia, che ho cercato d'imparare compiutamente così come avevo deciso di farne il mio unico sostentamento". Io gli chiesi allora come mai avvenisse che molte predizioni si realizzano. Rispose come poteva, che è un effetto del caso disseminato dovunque in natura. Consultando a casaccio, spiegava, le pagine di un qualsiasi poeta, che ben altro canta e pensa, spesso ne esce un verso, mirabilmente consono col fatto proprio; non è dunque strano se per un misterioso impulso dall'alto l'anima umana, pur ignara di quanto avviene nel suo interno, non per abilità, ma per accidente, faccia echeggiare alcune parole, che si armonizzano con la situazione e le faccende dell'interrogante.

3. 6. Questo ammaestramento tu mi facesti avere da quell'uomo o per mezzo di quell'uomo, tracciando nella mia memoria le linee di una ricerca, che poi avrei svolto per conto mio. Al momento né lui né il mio carissimo Nebridio, giovane di grande bontà e accortezza, con i suoi dileggi verso ogni sorta di presagi, poterono indurmi a respingerli. Aveva più influenza sul mio animo l'autorità dei miei autori, né avevo trovato ancora una prova sicura, quale cercavo, che mi mostrasse senza ambiguità come le predizioni degli astrologhi consultati predices-sero il vero per fortuna o sorte, non per l'arte di osservare le stelle.

Morte di un carissimo amico
Storia di un'amicizia

4. 7. In quegli anni, all'inizio del mio insegnamento nella città natale, mi ero fatto un amico, che la comunanza dei gusti mi rendeva assai caro. Mio coetaneo, nel fiore dell'adolescenza come me, con me era cresciuto da ragazzo, insieme eravamo andati a scuola e insieme avevamo giocato; però prima di allora non era stato un mio amico, sebbene neppure allora lo fosse, secondo la vera amicizia. Infatti non c'è vera amicizia, se non quando l'annodi tu fra persone a te strette col vincolo dell'amore diffuso nei nostri cuori ad opera dello Spirito Santo che ci fu dato 20. Ma quanto era soave, maturata com'era al calore di gusti affini! Io lo avevo anche traviato dalla vera fede, sebbene, adolescente, non la professasse con schiettezza e convinzione, verso le funeste fandonie della superstizione, che erano causa delle lacrime versate per me da mia madre. Con me ormai la mente del giovane errava, e il mio cuore non poteva fare a meno di lui. Quando eccoti arrivare alle spalle dei tuoi fuggiaschi, Dio delle vendette 21 e fonte insieme di misericordie, che ci rivolgi a te in modi straordinari 22; eccoti strapparlo a questa vita dopo un anno appena che mi era amico, a me dolce più di tutte le dolcezze della mia vita di allora.


Malattia e morte dell'amico

4. 8. Chi può da solo enumerare i tuoi vanti 23, che in sé solo ha conosciuto?. Che facesti tu allora, Dio mio? Imperscrutabile abisso delle tue decisioni 24! Tormentato dalle febbri egli giacque a lungo incosciente nel sudore della morte. Poiché si disperava di salvarlo, fu battezzato senza che ne avesse sentore. Io non mi preoccupai della cosa nella presunzione che il suo spirito avrebbe mantenuto le idee apprese da me, anziché accettare un'azione operata sul corpo di un incosciente. La realtà invece era ben diversa. Infatti migliorò e uscì di pericolo; e non appena potei parlargli, e fu molto presto, non appena poté parlare anch'egli, poiché non lo lasciavo mai, tanto eravamo legati l'uno all'altro, tentai di ridicolizzare ai suoi occhi, supponendo che avrebbe riso egli pure con me, il battesimo che aveva ricevuto mentre era del tutto assente col pensiero e i sensi, ma ormai sapeva di aver ricevuto. Egli invece mi guardò inorridito, come si guarda un nemico, e mi avvertì con straordinaria e subitanea franchezza che, se volevo essere suo amico, avrei dovuto smettere di parlare in quel modo con lui. Sbalordito e sconvolto, rinviai a più tardi tutte le mie reazioni, in attesa che prima si ristabilisse e acquistasse le forze convenienti per poter trattare con lui a mio modo. Senonché fu strappato alla mia demenza per essere presso di te serbato alla mia consolazione. Pochi giorni dopo, in mia assenza, è assalito nuovamente dalle febbri e spira.


Lo sconforto di Agostino

4. 9. L'angoscia avviluppò di tenebre il mio cuore 25. Ogni oggetto su cui posavo lo sguardo era morte. Era per me un tormento la mia patria, la casa paterna un'infelicità straordinaria. Tutte le cose che avevo avuto in comune con lui, la sua assenza aveva trasformate in uno strazio immane. I miei occhi se lo aspettavano dovunque senza incontrarlo, odiavo il mondo intero perché non lo possedeva e non poteva più dirmi: "Ecco, verrà", come durante le sue assenze da vivo. Io stesso ero divenuto per me un grande enigma. Chiedevo alla mia anima perché fosse triste e perché mi conturbasse tanto, ma non sapeva darmi alcuna risposta; e se le dicevo: "Spera in Dio" 26, a ragione non mi ubbidiva, poiché l'uomo carissimo che aveva perduto era più reale e buono del fantasma in cui era sollecitata a sperare. Soltanto le lacrime mi erano dolci e presero il posto del mio amico tra i conforti del mio spirito 27.


Misterioso conforto del pianto

5. 10. Ed ora, Signore, tutto ciò è ormai passato e il tempo ha lenito la mia ferita. Potrei ascoltare da te, che sei la verità 28, avvicinare alla tua bocca l'orecchio del mio cuore, per farmi dire come il pianto possa riuscire dolce agli infelici? o forse, sebbene ovunque presente, hai respinto lontano da te la nostra infelicità e, mentre tu sei stabile in te stesso, noi ci muoviamo in un seguito di prove 29? Eppure, se non potessimo piangere contro le tue orecchie, non rimarrebbe nulla della nostra speranza. Come può essere dunque che dall'amarezza della vita si coglie un soave frutto di gemiti, di pianto, di sospiri, di lamenti? La dolcezza nasce forse dalla speranza che tu li ascolti? Ciò accade giustamente nelle preghiere, perché sono animate dal desiderio di giungere fino a te: ma anche nella sofferenza per una perdita, in un lutto come quello che allora mi opprimeva? Io non speravo né invocavo con le mie lacrime il ritorno dell'amico alla vita, ma soffrivo e piangevo soltanto. Io ero infelice e la mia felicità più non era. O forse il pianto è una realtà amara e ci diletta per il disgusto delle realtà un tempo godute e ora aborrite?


Le ragioni della vita di fronte alla morte

6. 11. Ma perché parlo di queste cose? Non è tempo, questo, di porti domande, bensì di farti le mie confessioni. Sì, ero infelice, e infelice è ogni animo avvinto d'amore alle cose mortali. Solo quando la loro perdita lo strazia, avverte l'infelicità, di cui però era preda anche prima della loro perdita. Così avveniva allora per me. Piangevo amarissimamente, e riposavo nell'amarezza 30; mi sentivo infelicissimo, e avevo cara la stessa vita infelice più dell'amico perduto. Avrei voluto mutarla, ma non avrei voluto perderla in sua vece. Non so se avrei accettato di fare anche per lui come Oreste e Pilade, i quali, secondo la tradizione, se non è un'invenzione, avrebbero accettato di morire uno per l'altro o insieme, essendo per loro peggio di quella morte il vivere non insieme. In me era sorto un sentimento indefinibile decisamente contrario a questo, ove la noia, gravissima, della vita, in me si associava al timore della morte. Quanto più lo amavo, io credo, tanto più odiavo e temevo la morte, nemica crudelissima che me lo aveva tolto e si apprestava a divorare in breve tempo, nella mia immaginazione, tutti gli uomini, se aveva potuto divorare quello. Tale certamente era il mio stato d'animo, mi ricordo. Eccolo il mio cuore, mio Dio, eccolo nel suo intimo. Vedilo attraverso i miei ricordi, o speranza mia 31, tu che mi purifichi dall'impurità di questi sentimenti, dirigendo i miei occhi verso di te e strappando dal laccio i miei piedi 32. Mi stupivo che gli altri mortali vivessero, se egli, amato da me come non avesse mai a morire, era morto; e più ancora, che io vivessi se era morto colui, del quale ero un altro se stesso 33, mi stupivo. Bene fu definito da un tale il suo amico la metà dell'anima sua 34. Io sentii che la mia anima e la sua erano state un'anima sola in due corpi 35; perciò la vita mi faceva orrore, poiché non volevo vivere a mezzo, e perciò forse temevo di morire, per non far morire del tutto chi avevo molto amato.


Partenza per Cartagine in cerca di sollievo

7. 12. Oh follia, incapace di amare gli uomini quali uomini! Oh stoltezza dell'uomo, insofferente della condizione umana! Tali erano i miei sentimenti di allora, e di lì nascevano i miei furori, i miei sospiri, le mie lacrime, i miei turbamenti e l'irrequietudine e l'incertezza. Mi portavo dentro un'anima dilaniata e sanguinante, insofferente di essere portata da me; e non trovavo dove deporla. Non certo nei boschi ameni, nei giochi e nei canti, negli orti profumati, nei conviti sfarzosi, fra i piaceri dell'alcova e delle piume, sui libri infine e i poemi posava. Tutto per lei era orrore, persino la luce del giorno; e qualunque cosa non era ciò che lui era, era triste e odiosa, eccetto i gemiti e il pianto. Qui soltanto aveva un po' di riposo; ma appena di lì la toglievo, la mia anima, mi opprimeva sotto un pesante fardello d'infelicità. Per guarirla avrei dovuto sollevarla verso di te, Signore f_04_note.htm#N36">36, lo capivo, ma non volevo né valevo tanto, e ancora meno perché non eri per la mia mente un essere consistente e saldo, ossia non eri ciò che sei. Un vano fantasma e il mio errore erano il mio dio. Se tentavo di adagiarvi la mia anima per farla riposare, scivolava nel vuoto, ricadendo nuovamente su di me; e io ero rimasto per me stesso un luogo infelice, ove non potevo stare e donde non potevo allontanarmi. Dove poteva fuggire infatti il mio cuore via dal mio cuore, dove fuggire io da me stesso, senza inseguirmi? Dalla mia patria però fuggii 37, perché i miei occhi meno cercavano l'amico dove non erano avvezzi a vederlo. Così dal castello di Tagaste mi trasferii a Cartagine.

A Cartagine
Nuove amicizie consolatrici

8. 13. Il tempo non è inoperoso, non passa oziosamente sui nostri sentimenti. Agisce invece sul nostro animo in modo sorprendente. Ecco, veniva e trascorreva di giorno in giorno 38, e venendo e trascorrendo insinuava dentro di me nuove speranze, nuovi ricordi con paziente restauro ove alle antiche forme di piacere cedeva il recente dolore. Ma succedevano, se non nuovi dolori, motivi almeno di nuovi dolori. Perché, d'altronde, quel primo dolore era penetrato con grande facilità nel mio intimo, se non perché avevo versato la mia anima sulla sabbia 39, amando una creatura mortale come fosse immortale? Massimo ristoro e sollievo mi veniva dai conforti degli altri amici, con i quali avevo in comune l'amore di ciò che amavo in tua vece, dell'enorme finzione, della lunga impostura, corruttrice, con le sue carezze spurie, del nostro pensiero smanioso di udire 40. Per me quella finzione non moriva, se anche uno dei miei amici moriva. Altri legami poi avvincevano ulteriormente il mio animo: i colloqui, le risa in compagnia, lo scambio di cortesie affettuose, le comuni letture di libri ameni, i comuni passatempi ora frivoli ora decorosi, i dissensi occasionali, senza rancore, come di ogni uomo con se stesso, e i più frequenti consensi, insaporiti dai medesimi, rarissimi dissensi; l'essere ognuno dell'altro ora maestro, ora discepolo, la nostalgia impaziente di chi è lontano, le accoglienze festose di chi ritorna. Questi e altri simili segni di cuori innamorati l'uno dell'altro, espressi dalla bocca, dalla lingua, dagli occhi e da mille gesti gradevolissimi, sono l'esca, direi, della fiamma che fonde insieme le anime e di molte ne fa una sola 41.


Fortunati gli amici di Dio

9. 14. Tutto ciò si ama negli amici, e si ama in modo che la nostra coscienza di uomini si sente colpevole, se non risponde sempre con amore ad amore senza chiedere all'essere amato che prove di affetto. Vengono di qui il lutto alla morte degli amici, le tenebre del dolore, il mutarsi della dolcezza in amarezza, il cuore zuppo di pianto e la morte dei vivi per la perduta vita dei morti. Felice chi ama te, l'amico in te, il nemico per te 42. L'unico a non perdere mai un essere caro è colui che ha tutti cari in chi non è mai perduto. E chi è costui, se non il Dio nostro, il Dio che creò il cielo e la terra 43 e li colma 44, perché colmandoli li ha fatti? Nessuno ti perde, se non chi ti lascia, e poiché ti lascia, ove va, ove fugge 45, se non dalla tua benevolenza alla tua collera? Dovunque troverà la tua legge nella sua pena, e la tua legge è verità 46, e la verità sei tu 47.


Destino effimero delle creature

10. 15. Dio delle virtù, rivolgi noi a te, mostra a noi il tuo viso, e saremo salvi 48. L'animo dell'uomo si volge or qua or là, ma dovunque fuori di te è affisso al dolore, anche se si affissa sulle bellezze esterne a te e a sé. Eppure non esisterebbero cose belle, se non derivassero da te. Nascono e svaniscono: nascendo cominciano, per così dire, a esistere, crescono per maturare, e appena maturate invecchiano fino a morire. Non tutte invecchiano, ma tutte muoiono. Nel nascere, dunque, e nel tendere all'esistenza, quanto più rapida è la loro crescita verso l'essere, tanto più frettolosa la loro corsa verso il non essere. Questa è la loro limitazione, non più di questo hai concesso loro, perché sono parte di altre entità che non esistono tutte simultaneamente, ma tutte formano con la loro scomparsa e comparsa l'universo, di cui sono parti. Così, ecco, anche i nostri discorsi si sviluppano fino alla loro conclusione attraverso una successione di suoni, e non si avrebbe un discorso completo, se ogni parola non sparisse per lasciare il posto a un'altra dopo aver espresso la sua parte di suono. Ti lodi per quelle cose la mia anima 49, Dio creatore di tutto 50, ma senza lasciarsi in esse invischiare dall'amore, attraverso i sensi del corpo. Esse vanno ove andavano 51 per cessare di esistere, e straziano l'anima con passioni pestilenziali, perché il suo desiderio è di esistere e di riposare fra le cose che ama. Ma lì non può trovare un punto fermo, perché le cose non sono stabili. Fuggono, e chi potrebbe raggiungerle con i sensi della carne, o afferrarle, anche quando sono vicine? I sensi della carne sono lenti, appunto perché sono della carne, e questa è la loro limitazione. Bastano ad altri scopi, per cui sono fatti, ma non bastano allo scopo di trattenere le cose che corrono dal debito inizio al debito fine. Nella tua parola, con cui sono create, si sentono dire: "Di qui e fin qui" 52.


Stabilità di Dio

11. 16. Non essere vana, anima mia, non assordare l'orecchio del cuore col tumulto delle tue vanità. Ascolta tu pure: è il Verbo stesso che ti grida di tornare; il luogo della quiete imperturbabile è dove l'amore non conosce abbandoni, se lui perprimo non abbandona. Qui invece, lo vedi, ogni cosa dilegua per far posto ad altre e costituire l'universo inferiore nella sua interezza. "Ma io, dice il Verbo divino, mi dileguo forse da qualche parte?". Fissa dunque in lui la tua dimora 53, affida a lui quanto tieni da lui, anima mia finalmente stanca d'inganni; affida alla verità quanto ti viene dalla verità, e nulla perderai. Rifioriranno le tue putredini, tutte le tue debolezze saranno guarite, le tue parti caduche riparate, rinnovate 54, fissate strettamente a te stessa; anziché travolgerti nel loro abisso, rimarranno stabili e durevoli con te accanto a Dio eternamente stabile e durevole 55.

11. 17. Perché segui, pervertita, la tua carne? Essa piuttosto segua te, convertita. Attraverso le sue sensazioni tu hai conoscenze parziali, ma ignoranza del tutto, di cui pure le parti ti dànno diletto. Se i sensi della tua carne fossero capaci di abbracciare la totalità e non fossero stati giustamente limitati, per tuo castigo, a una parte del complesso, vorresti che le cose ora esistenti passassero, per gustarle maggiormente tutte insieme. Tu odi quanto diciamo, mediante la stessa sensibilità della carne, e certo non vuoi mai che le sillabe si arrestino, bensì che trascorrano a volo per far posto ad altre, in modo da udire l'intero discorso. Così sempre per tutte le parti che costituiscono un'unica sostanza e non esistono tutte simultaneamente per costituirla: si gustano maggiormente tutte, che ognuna per sé, qualora si possano percepire tutte. Molto migliore delle cose è però colui che le fece tutte, e questi è il Dio 56 nostro, che mai si ritrae, poiché nulla gli sottentra.


Esortazione a cercare la felicità in Dio

12. 18. Se ti piacciono i corpi loda Dio 57 per essi, rivolgi il tuo amore al loro artefice per evitare di spiacere a lui per il piacere delle cose. Se ti piacciono le anime, in Dio amale, poiché sono mutevoli anch'esse, ma in lui si fissano stabilmente, mentre altrove passerebbero e perirebbero. In lui amale dunque, rapisci a lui con te quante altre anime puoi e di' loro: "Amiamolo: lui è il creatore di queste cose 58 e non ne è lontano 59, perché non le abbandonò dopo averle create, ma, venute da lui, in lui sono. Dov'è? dove si assapora la verità? È nell'intimo del cuore, ma il cuore errò lontano da lui 60. Rientrate nel vostro cuore, prevaricatori 61, e unitevi a colui che vi ha creati. Restate con lui, e resterete saldi; riposate in lui, e avrete riposo. Dove andate 62, alle tribolazioni? Dove andate? Il bene che amate deriva da lui, ma solo in quanto tende a lui è buono e soave; sarà invece giustamente amaro, perché ingiustamente si ama, lasciando lui, ciò che deriva da lui. Quale vantaggio ricavate dal vostro lungo e continuo camminare per vie aspre 63 e penose? Non vi è quiete dove voi la cercate. Cercate ciò che cercate, ma non è lì, dove voi cercate. Voi cercate una vita felice in un paese di morte 64: non è lì. Come potrebbe essere una vita felice ove manca la vita?

12. 19. Discese nel mondo la nostra vita, la vera 65, si prese sulle sue spalle la nostra morte e l'uccise 66 con la sovrabbondanza della sua vita, ci gridò tuonando di tornare dal mondo a lui, nel sacrario onde venne a noi dapprima entrando nel seno di una vergine, ove gli si unì come sposa la creatura umana, la nostra carne mortale, per non rimanere definitivamente mortale; poi di là, come sposo che esce dal talamo, uscì con balzo di gigante per correre la sua via 67, e senza mai attardarsi corse gridando a parole e a fatti, con la morte e la vita, con la discesa e l'ascesa 68, gridando affinché tornassimo a lui; e si dipartì dagli occhi 69 affinché tornassimo al cuore, ove trovarlo. Partì infatti, ed eccolo, è qui 70. Non volle rimanere a lungo con noi, e non ci ha lasciati. Partì verso un luogo da cui non si era mai dipartito, perché il mondo fu fatto per mezzo suo, e in questo mondo era 71 e venne in questo mondo a salvare i peccatori 72. La mia anima si confessa a lui, e lui la guarisce, perché ha peccato contro di lui 73. Figli degli uomini, fino a quando questo peso nel cuore? 74. Anche dopo che la vita discese a voi, non volete ascendere a vivere? Dove ascendete, se siete già in alto e avete posto la bocca nel cielo 75 ? Discendete, per ascendere, e ascendere a Dio, poiché cadeste nell'ascendere contro Dio". Di' loro queste parole, anima mia, affinché piangano nella valle del pianto 76, e così rapiscili via con te fino a Dio. Lo spirito di Dio t'ispira queste parole, se nel parlare ardi col fuoco della carità.

Il problema del bello
Composizione del trattato Sulla bellezza e la convenienza

13. 20. Ignaro di tutto ciò, e innamorato delle bellezze terrene, io allora camminavo verso l'abisso 77 e dicevo ai miei amici: "Noi non amiamo che il bello. Cos'è il bello? e cos'è la bellezza? Cosa ci attrae e ci avvince agli oggetti del nostro amore? La convenienza e la grazia, perché se ne fossero privi non ci attirerebbero affatto". Avvertivo cioè e notavo che nei corpi altra cosa è la bellezza, per così dire, complessiva, in quanto sono un complesso, e altra la convenienza, ossia l'armonia con altri corpi, come una parte del nostro corpo si armonizza col tutto, o un calzare col piede e così via. Questa considerazione scaturì nella mia mente dall'intimo del mio cuore, per cui scrissi alcuni libri sulla bellezza e la convenienza, credo due o tre: tu sai, Dio 78, io ne ho perso il ricordo, né più li possiedo. Per noi sono smarriti, chissà come.


Dedica del trattato all'oratore Gerio

14. 21. Cosa mi spinse, Signore Dio mio, a dedicare quei libri a un oratore romano, Gerio, che non conoscevo personalmente? Avevo preso ad amarlo per la chiara fama della sua erudizione e per alcune parole che di lui mi erano state riferite e mi erano piaciute. Ma soprattutto mi piaceva perché piaceva agli altri, ne era esaltato e lodato. La gente stupiva che da un siriano, già dotto nell'oratoria greca, fosse uscito anche un dicitore mirabile nella latina, versatissimo per di più negli studi relativi alla filosofia. Accade dunque di lodare un uomo e di amarlo anche da lungi; ma questo amore entra forse nel cuore di chi ascolta dalla bocca di chi loda? Lungi da me! È invece dall'amore dell'uno che si accende l'amore dell'altro. Nasce l'amore della lode quando si crede alla sincerità degli elogi di chi loda, cioè quando costui ama chi loda.

14. 22. Così appunto io allora amavo gli uomini, seguendo il giudizio degli uomini e non il tuo, Dio mio, in cui nessuno s'inganna. Perché tuttavia la mia lode non era qual è per un auriga celebre o un cacciatore esaltato dalla fama popolare, bensì molto differente, e seria e quale avrei voluto ricevere anch'io? Io non avrei voluto ricevere la lode e l'amore degli istrioni, per quanto li lodassi e amassi poi anch'io. Avrei preferito l'oscurità a una nomea di quel genere, l'odio addirittura a un simile amore. Come si distribuiscono in una medesima anima le forze di amori tanto vari e diversi? Come mi avviene di amare in altri ciò che invece non detesterei né respingerei da me, se non l'odiassi? Eppure siamo uomini entrambi. Sì, chi ama un buon cavallo, non vorrebbe esserlo, anche potendo, ma non si può dire altrettanto per un istrione, il quale partecipa della nostra natura. Io amerei dunque in un uomo ciò che non vorrei essere, pur essendo un uomo? Quale abisso l'uomo medesimo, di cui tu, Signore, conosci persino il numero dei capelli 79 senza che nessuno manchi al tuo conto! Eppure è più facile contarne i capelli che i sentimenti e i moti del cuore.

14. 23. Quel retore comunque apparteneva al genere d'uomini che io amavo al punto di voler essere come loro. La vanità mi portava fuori strada, ogni vento 80 mi spingeva or qua or là, ma tu nell'ombra mi pilotavi. Da dove riconosco, da dove traggo la certezza nel confessarti che l'amai più per l'amore di chi lo lodava, che per le ragioni di tante lodi? Se, anziché lodarlo, le medesime persone lo avessero biasimato, avessero narrato di lui i medesimi fatti con accenti di biasimo e sprezzo, io non mi sarei acceso né esaltato per lui; eppure i fatti non sarebbero stati certamente diversi, egli medesimo un uomo diverso; soltanto i sentimenti di chi ne parlava lo sarebbero stati. Ecco qual è la condizione di un'anima inferma, non ancora aderente alle solide basi della verità. Secondo che spira l'aura delle parole dal petto di chi sentenzia, essa è trasportata e spinta, è torta e ritorta, le si offusca la luce, non scorge la verità che, ecco, ci sta davanti. Per me era poi molto importante che quel personaggio venisse a conoscere il mio stile e i miei studi. Una sua approvazione avrebbe accresciuto il mio ardore, una riprovazione avrebbe pugnalato il mio cuore vano e privo della tua fermezza. Intanto la Bellezza e convenienza, il trattato che gli avevo dedicato, io passavo e ripassavo nella mente, davanti allo sguardo compiaciuto della mia contemplazione, e l'ammiravo senza che avesse l'approvazione di nessuno.


Argomenti del trattato

15. 24. Non vedevo però ancora nella tua arte, onnipotente e unico autore di meraviglie 81, il cardine di una realtà così grande. Il mio spirito percorreva le forme corporee e io definivo bello ciò che è armonioso in sé, conveniente ciò che è armonioso in rapporto con altri oggetti, suffragando questa distinzione con esempi concreti. Poi mi volsi a considerare la natura dell'anima. Ma l'idea falsa che avevo delle sostanze spirituali m'impediva di scorgere il vero. Per quanto la verità mi balzasse agli occhi con tutta la sua forza, io non distoglievo la mente ansiosa dalla realtà incorporea verso le linee, i colori e le masse turgide; e giacché non potevo ritrovarne nell'anima, pensavo che non avrei potuto ritrovare l'anima stessa; e poiché nella virtù mi attraeva la pace, nel vizio mi ripugnava la discordia, scorgevo nella prima una specie di unità, nel secondo una specie di divisione. In quell'unità poi mi pareva risiedere l'anima razionale, l'essenza della verità e del bene supremo; nella divisione invece misero scorgevo una sostanza indefinibile di vita irrazionale e l'essenza del male supremo, che per me era non solo sostanza, ma vera vita, sebbene non provenisse da te, Dio mio, da cui provengono tutte le cose 82. Delle due, alla prima davo il nome di monade in quanto intelligenza asessuale, alla seconda di diade, ed è la collera nei delitti, la libidine nei vizi. Non sapevo cosa dicessi. Infatti ignoravo e non avevo imparato che il male non è una sostanza, e neppure la nostra intelligenza è il bene supremo e immutabile.


Orgoglio di un uomo corrotto

15. 25. Come si commettono delitti quando l'impulso spirituale che muove le nostre azioni è corrotto e si scatena con torbida arroganza; come si cade nel vizio quando l'anima non modera le inclinazioni di cui si alimentano i piaceri fisici, così gli errori e le opinioni false guastano la vita, se anche l'anima razionale è corrotta. Corrotta era la mia allora, poiché ignoravo che un'altra luce doveva illuminarla, se voleva godere della verità, poiché non era essa per sé l'essenza della verità. Tu infatti illuminerai la mia lucerna, Signore; tu, Dio mio, illuminerai le mie tenebre 83. Tutti abbiamo attinto dalla tua pienezza 84; tu sei il vero lume, il quale illumina ogni uomo che viene in questo mondo 85; perché non sei soggetto ad alterazione né ad ombra di mutamento 86.

15. 26. Io tendevo però verso di te, e tu mi respingevi via da te 87 per farmi assaporare la morte 88, poiché resisti ai superbi 89: e può esservi atto più superbo del mio, quando affermavo con demenza inaudita di essere per natura ciò che sei tu? Ero mutevole, e ben lo capivo dal desiderio appunto di sapere per divenire da peggiore migliore; eppure preferivo credere mutevole anche te, piuttosto che me diverso da ciò che tu sei. Di qui le tue ripulse, la tua resistenza di fronte alla mia tronfia testardaggine. Fissavo la mia immaginazione su forme corporee, ero carne e accusavo la carne, ero un soffio passeggero e ancora non tornavo 90 a te, passavo passeggero fra cose inesistenti in te, in me, nella materia, non create per me dalla tua verità, ma dalla mia vanità immaginate secondo la materia. E dicevo ai tuoi piccoli, ai tuoi fedeli, ai miei concittadini, da cui ero a mia insaputa in lontano esilio, dicevo loro con sciocca petulanza: "Perché dunque dovrebbe ingannarsi lo spirito, se creato da Dio?", e non volevo sentirmi rispondere: "Perché dunque dovrebbe ingannarsi Dio". Preferivo sostenere che la tua sostanza immutabile è costretta ad errare, anziché riconoscere che la mia mutabile aveva deviato spontaneamente e per castigo errava.

15. 27. Avevo forse ventisei o ventisette anni quando scrissi quei volumi, rivolgendo dentro di me le elucubrazioni materialistiche che rumoreggiavano alle orecchie del mio cuore. Pure tendevo queste orecchie, o dolce verità, alla tua melodia interiore nell'atto stesso di meditare sulla bellezza e la convenienza. Il mio desiderio era di stare ritto innanzi a te, di udirti, di sentirmi preso dalla gioia alla voce dello sposo 91; e non potevo realizzarlo poiché le voci del mio errore mi trascinavano fuori di me e il peso del mio orgoglio mi faceva cadere verso il basso. Non davi infatti gioia e letizia al mio udito, né esultavano le ossa, che non erano state ancora umiliate 92.


Lettura delle Dieci categorie di Aristotele

16. 28. E a che mi giovava 93 l'aver letto e capito da solo, sui vent'anni, un'opera aristotelica venutami fra mano, che chiamano Le dieci categorie? A pronunciarne soltanto il nome le gote del mio maestro cartaginese di retorica, e di altre persone che passavano per erudite, si gonfiavano fino a scoppiare; perciò io restavo là con la bocca aperta come davanti a cosa straordinaria e divina. Ne discussi poi con persone che dicevano di averla capita a fatica, pur sotto la guida di maestri coltissimi e con l'ausilio non solo delle loro parole, ma anche di molte figure tracciate sulla polvere; ma non riuscii a saperne più di quanto avevo imparato da me solo, leggendola per mio conto. Mi sembrava che l'opera parlasse abbastanza chiaramente delle sostanze, quale l'uomo, e delle loro proprietà, quale l'aspetto dell'uomo, come sia; la statura, di quanti piedi sia; la relazione, di chi sia fratello; oppure dove sia stabilito, quando nato, se stia ritto o seduto, se abbia i piedi calzati e armi indosso, se compia o subisca qualche azione, e insomma tutte le innumerevoli qualità comprese nelle nove categorie di cui ho dato qualche esempio e nella categoria stessa di sostanza .

16. 29. A che mi giovava ciò? Anzi, mi nuoceva addirittura. Convinto che quei dieci attributi comprendono perfettamente tutto ciò che esiste, mi sforzavo di capire anche te, Dio mio, essere mirabilmente semplice e immutabile, come condizionato dalla tua grandezza e bellezza. Queste qualità mi parevano sussistere in te come in un essere condizionato, come in un corpo, mentre tu medesimo sei la tua grandezza e bellezza, invece i corpi non sono grandi e belli per loro natura. Potrebbero infatti essere meno grandi e meno belli senza perdere per ciò la loro natura. Ogni mio concetto di te era falso, non vero; vana immaginazione della mia miseria, non solida visione della tua beatitudine. L'avevi voluto, e così accadeva in me che la terra producesse per me spine e triboli, e io ottenessi il pane a prezzo di fatiche 94.


Lettura di varie opere letterarie e scientifiche

16. 30. E a che mi giovava l'aver letto e capito da me tutti i trattati che potei delle arti cosiddette liberali, se allora ero schiavo disonestissimo delle male passioni? Trovavo diletto nella loro lettura senza conoscere la provenienza delle sicure verità in essi contenute, poiché volgevo il dorso al lume, il viso agli oggetti illuminati: così il mio viso, se li vedeva illuminati, non era però illuminato. Quante nozioni di eloquenza e dialettica, di geometria e musica e aritmetica intesi senza grande fatica e alcun ammaestramento umano lo sai tu, Signore Dio 95 mio, poiché la prontezza dell'intelletto e l'acume del discernimento sono dono tuo. Ma non ne facevo offerta a te 96, quindi erano per me un potere più nocivo che utile. Infatti m'industriai di rivendicare a me stesso la parte migliore della mia sostanza; anziché preservare la mia forza presso di te 97, mi allontanai da te verso un paese lontano, ove dissiparla fra le meretrici passioni 98. A che mi giovava invero l'uso non buono di una cosa buona? Non mi rendevo conto delle grandi difficoltà che la comprensione di quelle dottrine presenta anche a studiosi d'ingegno, se non quando mi sforzavo di spiegarle a loro, e il più eccellente fra loro era il meno tardo a capire la mia spiegazione.


Inutilità dell'ingegno e della cultura separati da Dio

16. 31. A che mi giovava ciò, se, Signore Dio e verità, pensavo che tu fossi un corpo luminoso e immenso, e io un frammento di quel corpo? Smisurata perversione! Eppure era il mio stato e non arrossisco, Dio mio, di confessarti gli atti della tua misericordia 99 verso di me e invocarti, come non arrossii allora di professare davanti agli uomini le mie bestemmie latrando contro di te 100. A che mi giovava allora l'abile destreggiarsi del mio ingegno attraverso le scienze, l'aver districato senza l'ausilio di maestri umani tanti libri intricatissimi, se poi erravo con mostruosa e sacrilega infamia nella dottrina della tua pietà? Oppure, perché tanto nuoceva ai tuoi piccoli un'intelligenza di gran lunga più tarda della mia, quando non si ritiravano lungi da te, e dunque mettevano sicuri le piume nel nido della tua Chiesa e sviluppavano le ali della carità con l'alimento di una fede sana 101? O Signore Dio nostro, noi si speri nella copertura delle tue ali, e tu proteggi noi 102, sorreggi noi. Tu ci sorreggerai, ci sorreggerai da piccoli, e ancora canuti ci sorreggerai 103. La nostra fermezza, quando è in te, allora è fermezza; quando è in noi, è infermità. Il nostro bene vive sempre accanto a te, e nell'avversione a te è la nostra perversione. Volgiamoci tosto indietro, Signore, per non essere sconvolti. Il nostro bene vive indefettibilmente accanto a te, perché tu medesimo lo sei 104, e non temiamo di non trovare al nostro ritorno il nido da cui siamo precipitati. La nostra casa non precipita durante la nostra assenza: è la tua eternità.


http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/conf_04.htm



__..._.--._.···._.·´¯`·._.  Jean-Christophe PACCHIANA  ._.·´¯`·._.···._.--._...__

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